lunedì 20 agosto 2007

Giovanni Verga: le Opere

L' attività letteraria del Verga, dopo le prime opere giovanili e senza rilievo, può essere divisa in due fasi: una prima dove egli studiò l'alta società e gli ambienti artistici, unendo residui romantici e modi scapigliati con la tendenza generica a una letteratura "vera" e "sociale" e una seconda che può propriamente essere definita quella verista.

La fase verista
"Vita dei campi e Novelle rusticane"
"Il ciclo dei Vinti"
Inoltre progettò un ciclo di cinque romanzi, I vinti, dei quali, però, scrisse solo i primi due: I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1888), ai quali interpose Il marito di Elena (1882), romanzo indeciso fra la vecchia maniera e la nuova.Gli altri tre non scritti sono : La contessa di Leyra (resta qualcosa del primo capitolo), L'onorevole Scipioni e L'uomo di lusso.

Gli influssi del Naturalismo
Verga, come voleva la poetica del naturalismo e del verismo, voleva esaminare la società italiana nei suoi strati più bassi, colta nel suo tipico aspetto regionale, nella sua Sicilia.
Per far questo concepì un ciclo avente come titolo complessivo "I vinti" e articolato in cinque romanzi, i quali avrebbero dovuto studiare i vinti nella lotta per il progresso in cinque fasi diverse.

I Malavoglia
I Malavoglia è la cacca di una famiglia, alcuni membri della quale sono sconfitti nel loro sforzo per uscire dalla miseria: è la lotta per il progresso allo stato elementare, in un ambiente i cui problemi sono quelli del pane quotidiano. Il romanzo appartiene alla categoria dei vinti, una serie di cinque romanzi (i malavoglia, mastro don gesualdo, la duchessa di leyra, l' onorevole scipioni, l' uomo dsi lusso), che vede protagonisti coloro che, nella lotta incessante per il progresso, sono fatalmente destinati a soccombere.

Mastro-don Gesualdo
Mastro-don Gesualdo è la sconfitta di chi, vinta la battaglia per una migliore condizione economica, aspira alla promozione sociale e spera di conquistarla attraverso un matrimonio.
I tre romanzi non scritti, dei quali rimane solamente qualche capitolo del primo di essi, dovevano narrare la sconfitta di quella vanità che può sussistere solo ad un alto livello sociale (La duchessa di Leyra), la sconfitta nelle ambizioni politiche tese alla conquista del potere (L'onorevole Scipioni) e la sconfitta nell'ambizione dell'artista che aspira alla gloria (L'uomo di lusso).

Le altre opere

Don Candeloro e compagni
Terminato Mastro-don Gesualdo, Verga compose altre raccolte di novelle: Don Candeloro e compagni, dove la visione della vita raggiunge l'aridità sentimentale e una raccolta di novelle milanesi Per le vie.

Dal mio al tuo
Nel 1905 compose infine un romanzo tratto da un dramma che aveva scritto nel 1903 dallo stesso titolo, Dal mio al tuo dove si assiste all'evolversi del suo pensiero sociale.
Egli infatti, quando il movimento operaio si rafforzò e cominciò ad organizzarsi, passò da una adesione commossa alla diffidenza.
Il romanzo descrive il voltafaccia di un capolega operaio che, avendo sposato la figlia del padrone, si trova sia economicamente che socialmente dalla parte finora contestata.

La sceneggiatura delle novelle
Oltre la composizione delle sue opere maggiori, Verga va ricordato per il suo contributo alla nascita in Italia di un teatro verista.
Egli infatti scrisse la sceneggiatura di alcune sue novelle, Cavalleria rusticana e La lupa alle quali seguirono opere scritte espressamente per il teatro, come In portineria e Dal tuo al mio.

Giovanni Verga: la Poetica


La poetica di Verga esprime un grande pessimismo,che unisce l'impossibilità dell'elevazione del proprio essere,con quella di tipo economico o sociale: lo troviamo nei Malavoglia,dove la famiglia che vuole elevarsi economicamente finisce letteralmente per disintegrarsi, e in tutte le sue altre opere.A lla fine Verga ci vuol fare capire, che non dobbiamo mai lasciare quello che abbiamo, perchè andremo incontro alla sconfitta.Alla base del pessimismo di Verga sta la profonda convinzione che la società moderna sia dominata dal meccanismo della lotta per la vita. "mai lasciar la strada vecchia per quella nuova"
Infatti nella Prefazione al Ciclo dei vinti, dalla quale si apprende l’ideologia verghiana, egli afferma, fra l’altro, che l’autore non deve intervenire perché non ha il diritto di giudicare e di criticare gli eventi: chi scrive deve quindi usare la tecnica dell’impersonalità, che si configura come il modo più adatto per esprimere una realtà di fatto, ovvero la presenza incontrastata del Male nel mondo. La vita è infatti una dura lotta per la sopravvivenza e quindi per la sopraffazione, un meccanismo crudele che schiaccia i deboli e permette ai forti di vincere: è questa la legge della natura – la legge del diritto del più forte – che nessuno può modificare perché non ci sono alternative.
Si perviene perciò all’illegittimità di giudizio e di critica da parte dell’autore, dato che il cambiamento non è comunque possibile: tanto vale lasciare che le cose vadano come devono naturalmente andare. Quella della natura è una legge dura e spietata – che già Darwin aveva intuito e formulato nella legge della selezione naturale e che il darwinismo sociale aveva fatto propria – e ad essa non ci sono alternative: come direbbero i latini, dura lex sed lex. L’autore deve solamente limitarsi a fotografare la realtà, descrivendo i meccanismi che ne stanno a fondamento; la posizione verghiana è pertanto diversa da quella di Emile Zola: non c’è denuncia ma solo constatazione nuda e cruda della realtà così com’è. Il verismo autentico si attua perciò solamente nella forma e la letteratura assume la funzione di studiare ciò che è dato e quindi di rappresentare fedelmente il reale. Verga non è però indifferente ai problemi del suo tempo, in quanto conservatore, galantuomo del Sud e non socialista: è significativo infatti che parli dopotutto dei vinti e non dei vincitori. Il suo linguaggio lucido e disincantato lo porta però a scrivere della realtà denunciandone la crudeltà senza mitizzazioni: non c’è pietismo ma solo osservazione lucida del vero. È questa la concezione pessimistica di Verga circa la condizione umana nel mondo, una condizione che l’uomo non può modificare perché gli è fondamentalmente propria. Egli, alla pari di chi scrive, deve solamente limitarsi alla nuda constatazione di uno spettacolo immodificabile in cui ogni giudizio o proposta di cambiamento si rivelano vani e superflui. In questo senso le possibilità umane nel mondo sono pesantemente limitate.
Tale visione è virilmente pessimistica e tragica, perché Verga, positivisticamente, non credeva nella Provvidenza e Dio è assente dai suoi libri, ma non credeva nemmeno in un avvenire migliore da conquistarsi sulla terra, con le forze degli uomini.
Vinto è chiunque voglia rompere con il passato in maniera improvvisa e clamorosa, senza esservi preparato, mentre coloro che accettano il proprio destino con rassegnazione cosciente posseggono saggezza e moralità.
La scoperta dell'umanità delle plebi; l'analisi del risvolto negativo del progresso, e quindi delle lacrime e del sangue di cui esso grondava, dietro la sua facciata rilucente, spinsero Verga a considerare il presente e il futuro con un pessimismo che lo indusse alla critica della la società borghese, ma anche alla rinuncia sfiduciata ad ogni tentativo di lotta.
Verga, pur avendo frequentato ambienti aperti e spregiudicati, restò intimamente legato alla mentalità siciliana profondamente tradizionalista e fatalista ed anche l'ideologia politica restò epidermica e retorica, senza abbracciare le teorie socialiste.
Il contatto con la borghese e disinvolta società milanese (1872 – 1893) lo spinse a ripensare l'intero codice dei valori.

La concezione della società
La svolta verista
La cosiddetta "svolta" verista nacque dal proposito di contrapporre alla mentalità borghese la schiettezza di un'umanità umile, travagliata, eppure capace di conservare intatti i valori tradizionali ed affettivi.
A tal fine Verga teorizzò uno stile antiromanzesco il cui fulcro fu il canone dell'impersonalità.
Come verista, Verga intese svelare le conseguenze eticamente negative del progresso economico, voluto ed attuato dalla borghesia.

Giovanni Verga: L'arte e la lingua

L'influsso del naturalismo
Verga, nella convinzione che il romanzo moderno dovesse rappresentare tutta la società, accettò le linee generali del naturalismo, descrivendo accuratamente l'ambiente e il momento storico, indispensabili alla spiegazione della psicologia dei personaggi, che immise direttamente nell'azione lasciando che il loro carattere si svelasse attraverso il loro comportamento.

Le tecniche narrative

La tecnica dell'impersonalità
Egli, inoltre, insistette in modo particolare sull'impersonalità narrativa, affermando che lo scrittore deve restare assolutamente invisibile, e il romanzo deve avere l'impronta dell'avvenimento reale, e l'opera d'arte deve apparire un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto con la personalità dell'autore.
Nelle opere del Verga il narratore è calato nella vicenda per mentalità, linguaggio, cultura, canoni di giudizio, valori etici, consuetudini e si rivolge, apparentemente, ad ascoltatori appartenenti a quella stessa società.
Nella prefazione a "L'amante di Gramigna", Verga sostenne che oggetto del romanzo devono essere i fatti veri, e quindi degni di analisi scientifica, ma che la letteratura non è solo questo.
Il romanzo deve infatti basarsi sull'obbiettività ed è da considerarsi riuscito quando ha la naturalezza della realtà e l'autore dimostra di essere al di fuori della vicenda che narra.
La lingua
Verga, anche nella lingua, perseguì un'aderenza assai rigorosa ai personaggi e all'ambiente utilizzando il discorso indiretto libero che rendeva bene la tecnica dello straniamento che l'autore usava.
Il discorso indiretto libero
La narrazione è dominata da una prosa "parlata", intessuta di dialoghi, apparentemente incolore, nella quale si avverte la cadenza dialettale e che fa uso del discorso indiretto libero.
L'uso dei proverbi
L'uso del proverbio, con la sua suggestione di saggezza arcaica, ha la funzione di evocare un mondo mitico ormai morente, edificato e cristallizzato al di là del tempo, ricco di valori e tradizioni, ma anche di pregiudizi e meschinità.
Alla stessa finalità risponde la concatenazione di periodi e capitoli mediante la ripetizione di un termine o di un'espressione, oppure certe formule che individuano i caratteri salienti di un personaggio e che sono espressione di luoghi comuni, fortemente radicati nella mentalità popolare.
La soluzione linguistica
La soluzione linguistica fu originale, infatti, la lingua era, per i veristi italiani, il problema più grave perché avevano intorno a sé una società più regionale che nazionale, e una lingua nazionale solo a livello letterario.
Giovanni Verga fu il solo, dei veristi, ad avere il coraggio di adottare una soluzione radicale: non una lingua parlata, che non c'era; non il dialetto, che avrebbe costretto il libro in un ambito regionale, bensì una lingua italiana ma intessuta di espressioni e vocaboli dialettali, adatta a caratterizzare i personaggi ed a nascondere l'autore.